Il patrimonio storico-artistico
Alquanto cospicuo era, sino al 23 novembre 1980, il patrimonio storico-artistico di Atripalda, nonostante il degrado e l'abbandono in cui in genere versava. Pesantissimo è però stato il bilancio del sisma, e perduto del tutto è l'intero quartiere di Capo La Torre, dalla caratteristica struttura urbanistica medioevale. Una completa ed accurata documentazione dell'intero patrimonio artistico atripaldese era stata tuttavia fortunatamente compiuta, soltanto pochi mesi prima del terremoto, dal locale "Centro di studi storici", che aveva realizzato in proposito un prezioso documentario filmato. Le notazioni che seguono delineeranno brevemente le caratteristiche salienti dei monumenti di Atripalda quali si presentavano prima del sisma, aggiornandone le condizioni al presente. Interamente nell'ambito del comune di Atripalda ricade l'area della cosiddetta "Civita", cioè dell'antica Abellinum, che occupa il vasto piano tufaceo che si stende dalle rampe di San Pasquale verso Pianodardine e Borgo Ferrovia, venendo delimitato da via Roma, via Manfredi, via Ferrovia e dal torrente Rigatore. Nonostante la vastità e l'importanza di questa area archeologica, solo da pochi anni sono iniziati scavi regolari, volti a mettere finalmente in luce l'antica città. Dopo innumerevoli rinvenimenti occasionali, la "Civita" fu in pieno rivelata nel 1962-63 in occasione della costruzione del raccordo autostradale tra la Naooli-Bari e l'Avellino-Salerno. I lavori, che tagliarono il centro abitato romano nel lato nord del perimetro urbano, portarono alla luce un cospicuo e ben conservato edificio pubblico di vaste dimensioni, nel quale fu rinvenuto uno splendido mosaico di età imperiale, oggi conservato presso il Museo Irpino. Nel 1967-68 scavi regolari vennero condotti nella "cupa della Maddalena", nell'area della necropoli extraurbana, nel corso dei quali vennero scoperti alcuni mausolei funerari ed alcuni edifici attigui di culto. Già nel 1881, in quella stessa zona, durante i lavori per la costruzione della via per la stazione ferroviaria, era stata rinvenuta una singolarissima tomba a camera sotterranea in travertino in stile orientalizzante, che fu studiata dall'insigne archeologo Antonio Sogliano. Successivamente reinterrata, oggi l'importantissima tomba a camera non è più visibile e se ne ignora la sorte. Destino addirittura peggiore è toccato ai monumenti funerari portati in luce nel 1967-68, che oggi, inspiegabilmente, in loro luogo sorge un moderno edificio. L'area della cupa della Maddalena, cioè dell'antica necropoli extraurbana che fiancheggiava la strada per Nuceria, è stata infatti quella della Civita più interessata da massicci fenomeni di speculazione edilizia. Tra il 1970 ed il 1972 sono stati edificati in area archeologica, addirittura al di là delle mura urbiche della città romana, ben 11.200 me. di costruzioni, che sarebbero divenuti molti di più se non fosse intervenuto, sia pur tardivamente, il vincolo della Sovrintendenza alle antichità. Integre si conservano invece le imponenti mura urbiche di Abellinum sul lato sud-est della cupa della Maddalena. La stessa Sovrintendenza ha pure recentemente promosso degli scavi all'interno dell'area urbana di Abellinum, alle spalle del convento di San Pasquale. Cospicui sono stati i risultati di tali indagini, tra cui ricordiamo la scoperta della più antica cerchia murata della città e di una villa patrizia di età repubblicana. Moltissimo rimane ancora da fare per la scoperta, la valorizzazione e la salvaguardia dell'area archeologica di Abellinum, che è sicuramente avviata a divenire un sicuro punto di riferimento turistico e culturale a livello regionale. Strettamente legato alle vicende di Abellinum è anche lo "Specus Martyrum", cioè la cripta in cui vennero sepolti i martiri cristiani della città romana. Assai rimaneggiato attraverso i secoli, lo "Specus" costituisce oggi la cripta della chiesa collegiata di Sant'Ippolisto. Nel corso dei lavori di restauro effettuati negli ultimi due decenni del secolo scorso importanti scoperte vi vennero compiute dall'insigne archeologo napoletano mons. Gennaro Aspreno Galante, sostenuto dal mecenatismo del barone Francesco Di Donato. Durante i lavori di bonifica della parte più fatiscente del centro antico ( 1890), il Galante scoprì inoltre cospicui avanzi del "coemeterium" paleocristiano, che si sviluppava in superficie intorno allo "Specus", ed in cui i fedeli venivano "sodati cum sanctis". Questo "coemeterium" si estendeva nell'area circostante l'attuale chiesa di Sant'Ippolisto, nel cuore del centro antico di Atripalda (vico San Giovanniello, vico Carlo, piazza Santa Maria). E' auspicabile che ora, dopo le distruzioni irreparabili del terremoto, le ricerche del Galante siano riprese a sviluppate. Nella cripta - che, nonostante i numerosi rimaneggiamenti, conserva ancora oggi una sua caratteristica suggestione, con le sue volte schiacciate e le colonnine tortili di stile romanico - oltre ai resti di Sant'Ippolisto e degli altri diciannove martiri abellinati della persecuzione dioclezianea (304-312 d.C), sono collocati, in due distinte cappelle, i sepolcri di San Sabino, vescovo di Abellinum (526 e.) e del suo diacono San Romolo. Sul sepolcro di San Sabino, che è costituito da un sarcofago romano riutilizzato, si legge un suggestivo epitaffio che ne ricorda con efficacia le virtù e le opere. Analogo epitaffio è inciso sul sepolcro di San Romolo. Nella cappella del tesoro sono invece collocate in urne e busti le reliquie degli altri martiri; gli affreschi della cappella, dovuti a Michele Ricciardi (1728), versano in grave stato di degrado. La superiore chiesa di Sant'Ippolisto, eretta in collegiata nel 1598 e servita inizialmente da 6 canonici, passati poi a 19, più volte rimaneggiata nel corso della sua storia plurisecolare, conserva sostanzialmente l'aspetto che le fu dato col restauro compiuto nel 1852. Recenti sondaggi hanno però portato alla luce le originarie e massiccie colonne romaniche in pietra viva delle navate, ricoperte nell'800 da strati di tufi e da stucchi. Alle spalle dell'altare maggiore si osserva il "Martirio di sant'Ippolisto", del pittore napoletano Niccolò La Volpe (1852). Degna di rilievo è la cappella di San Sabino; in essa è collocato il busto argenteo del santo, che ne contiene il teschio. Il terremoto del 23 novembre '80 ha arrecato gravi danni anche se non irreparabili alle strutture della chiesa di Sant'Ippolisto, con il crollo del vertice del campanile, lo sfondamento della volta dell'abside, le lesioni alle volte delle navate ed il principio di scollamento della facciata. La chiesa è però già in avanzato stato di restauro. Danni anche più gravi hanno subito le altre chiese di Atripalda. Parzialmente distrutta è la chiesa della confraternita della SS. Annunziata, una delle più antiche della cittadina, nella quale si conservava un quadro si scuola fiamminga dalle calde tonalità, raffigurante l'Annunciazione. Soltanto le mura perimetrali avanzano dell'antichissima chiesa di Santa Maria o del SS. Rosario, a tre navate, la cui opera più notevole era costituita dal sepolcro rinascimentale di Lucrezia Caracciolo, morta nel 1577. La chiesa, come ricorda una lapide del 1573 di Domizio Caracciolo, costituiva infatti la sepoltura gentilizia della nobile famiglia, anche per la sua prossimità al castello. Ha invece retto bene l'imponenente edificio settecentesco, in caratteristico stile conventuale, del monastero femminile di Santa Maria della Purità, di recente restaurato nel rispetto delle linee originarie. Fondato nel suo palazzo nel 1660 dalla nobile Delia Laurenzano, il pio istituto si trasferì nella sede attuale nei primi decenni del '700. A parte queste emergenze architettoniche, anch'esse così gravemente colpite dal sisma, l'intero centro antico di Atripalda, dalla caratteristica struttura urbanistica medioevale, è da considerarsi perduto. Sino alla fine del '700 esso era ancora chiuso da mura, nelle quali si aprivano cinque porte: Porta di Susa alli Fossi; Porta del Seggio; Porta di Capo la Torre; Porta di Santa Maria delle Grazie e Porta della Piazza. Numerose erano pure le steli e le epigrafi romane visibili nelle vie della vecchia Atripalda; travolte dalla rovina degli edifici in cui erano murate, queste preziose testimonianze sono ora in massima parte conservate presso il Museo Irpino, dove è pure pervenuta la lapide seicentesca che ricordava il soggiorno di Giovanna II d'Angiò nel distrutto palazzo dei baroni Simeoni. Per Pimporatanza avuta nella storia medioevale e moderna di Atripalda un discorso particolare meritano il castello medioevale e il vicino palazzo Caracciolo. Al castello medioevale si sale imboccando una "cupa" immediatamente fuori dell'abitato, lungo la strada provinciale per Serino, tra il bel palazzo settecentesco dei baroni Belli, ora abbattuto dal terremoto, e la massiccia mole cinquecentesca del palazzo ducale dei Caracciolo. Proprio al vertice della collina, tra i castagni ed una folta vegetazione selvatica, affiorano i superstiti avanzi del castello. I ruderi avvolgono concentricamente la vetta e, data la folta vegetazione, è alquanto arduo inoltrarsi tra i rovi e le mura diroccate per tentare di riconoscere la struttura del fortilizio. Esso era costituito da un robusto muraglione di cinta, superato il quale si accedeva ad un angusto cortile interno, dominato dal torrione centrale, di cui avanzano cospicue vestigia, e che era la residenza del castellano e degli armigeri, oltre a costituire il fulcro nevralgico di tutto il complesso difensivo. A questo sommario schema generale è pressoché impossibile tentare di aggiungere altri dati per una più dettagliata ricostruzione delle strutture del maniero, che comunque era forte più per posizione naturale che per altre difese. Le mura sono formate da blocchi di tufo cementati da una malta durissima, alternati qua e là a frammenti di laterizi e di altri materiali di riporto, provenienti da un edificio preesistente e più antico. Questo dovette con molta probabilità essere il tempio di Diana della vicina Abellinum. Negli "Atti" di Sant'Ippolisto (226-303 d.C.) si narra infatti come quel tempio pagano, che sorgeva appunto sulla sommità di un colle ("in cucumine montis"), venisse distrutto e come sulle sue rovine fosse eretta una chiesa cristiana, la cui esistenza, sotto il titolo di San Pietro, è documentata per l'età medioevale. Alcuni documenti cavensi, ed in particolare uno del 1174, ricordano infatti la chiesa di San Pietro come esistente al di sotto del castello ("constructa infra ipsum castellum"). II castello, per i materiali e le tecniche di costruzione, si rivela come opera del tardo periodo longobardo, e quindi risalente intorno al Mille. Molto probabilmente, a ristrutturarlo e ad erigerlo di pianta fu quel Truppoaldo Racco, della famiglia dei conti longobardi di Avellino, che, pochi anni dopo il Mille, eredità la parte orientale della contea, al di là della riva destra del Sabato, e dal quale avrebbe poi preso nome il borgo che si sviluppò ai piedi del castello, intorno all'antichissimo "specus" dei martiri cristiani di Abellinum. La funzione strategica assolta dal castello nei secoli XI-XV fu quanto mai importante. Esso infatti dominava, da una fortissima posizione naturale, l'alta valle del Sabato ed il sistema viario che l'attraversava. In particolare, le due importanti strade che collegavano la valle del Sabato a quella del Calore, quella "montellese" attraverso Serpico e Volturara e quella "napoletana" attraverso Candida e Lapio, venivano a cadere sotto il controllo del castello di Atripalda. Coinvolto nelle lotte che videro contrapposti gli Orsini ai Caracciolo durante il regno di Giovanna II d'Angiò (1414-1435), e poi valido baluardo di Orso Orsini contro Ferrante d'Aragona nel 1460-61, il castello venne però nettamente superato, alla fine del '400, dall'evoluzione della strategia e dei sistemi di fortificazione. La posizione troppo isolata e decentrata rispetto al centro abitato, la ristrettezza del suo circuito difensivo e la sua vulnerabilità alle offese delle artiglierie avevano ormai ridotto il vecchio maniero a poco più di un posto di osservazione e di un avamposto fortificato. I suoi angusti e scomodi locali, inoltre, mal si prestavano ad ospitare i feudatari, specie quando dal 1564 Atripalda passò in possesso dei Caracciolo, principi di Avellino e duchi di Atripalda, che erano potenti e fastosi signori, circondati da una vera e propria corte. Abbandonato quindi per sempre il vecchio castello, nella seconda metà del secolo XVI i Caracciolo edificarono, ai piedi della collina, un nuovo ed imponente palazzo. L'edificio, ancora integro nella purezza della sua severa linea tardorinascimentale, è a pianta rettangolare e si sviluppa su due piani, venendo segnato al piano superiore da un maestoso ordine di grandi balconate. Successivamente, all'originaria ala cinquecentesca ne fu aggiunta un'altra, sviluppantesi longitudinalmente alla prima. A legare armonicamente le due ali ne fu eretta una terza, leggermente arretrata rispetto alle altre due. Quest'ala centrale si sviluppa su di un imponente porticato in travertino, all'interno del quale era posta una fontana monumentale, di cui avanzano oggi solo pochi elementi. A ristrutturare l'intero complesso architettonico ed il parco fu, come ricorda un'epigrafe, il principe Giovanni Caracciolo nel 1787. Un vasto parco, arricchito di piante rare, fontane e giochi d'acqua, si sviluppava sia sul retro che sul prospetto principale del palazzo. In esso i Caracciolo collocarono con fine gusto una preziosa raccolta di epigrafi, di sculture e di vari reperti archeologici, provenienti in massima parte da Abellinum. Ormai cancellato nella sua parte anteriore, il parco è invece ancora ben conservato in quella posteriore, con la settecentesca disposizione dei viali a croce greca ed una grande fontana centrale. E' qui anche visibile l'unica statua superstite dell'antica raccolta. Si tratta della poderosa e pregevole immagine marmorea di un Fauno, dalle forme marcatamente plastiche. Saccheggiato nel 1799 ed alienato a privati dopo l'abolizione della feudalità (1806), per il palazzo venne l'epoca della decadenza oscura e malinconica, dell'abbandono e della rovina, da cui non sono valsi a trarlo la sua grande rilevanza storico-artistica e la stessa dichiarazione di monumento nazionale, avvenuta con decreto del 30 aprile 1912. Uscendo dal centro antico di Atripalda, l'assetto urbanistico al di qua del Sabato è caratterizzato dall'ampia piazza Umberto I, nella quale confluiscono le principali strade della città. La piena urbanizzazione dell'area fu realizzata soltanto negli ultimi decenni dell'800 per impulso precipuo dell'amministrazione comunale presieduta dal sindaco Belli, che provvide a sdemanializzare ed a concedere a privati per costruzioni i vasti suoli posseduti in quell'epoca dal municipio. In quello stesso periodo (1885) fu edificato il nuovo edificio della Dogana, su progetto dell'ing. Carmine Biancardi, che nella sua imponenza personifica assai efficacemente i traguardi e le ambizioni dell'economia di Atripalda in quel periodo. All'interno dell'edificio è di particolare rilievo la grande sala centrale a padiglione, sorretta da una splendida struttura lignea di eccezionale ardimento e suggestione, meritevole di ben altra utilizzazione di quelle più recenti. Pur avendo fatto registrare in conseguenza del sisma il crollo parziale della parte posteriore dell'edificio, la Dogana è attualmente in corso di restauro ad opera della Sovrintendenza ai monumenti. Sino alla seconda metà dell'800 l'area dell'attuale piazza Umberto I non era altro che un vasto ed irregolare spiazzo, adibito a sede delle fiere e marcato soltanto dal convento e dalla chiesa degli alcantarini, popolarmente oggi detta di San Pasquale, e dal settecentesco palazzo Sessa. Il complesso conventuale degli alcantarini, eretto nel 1589 e passato successivamente ai francescani, ha subito col tempo profondi rimaneggiamenti e si presentava fino al 1980 con una sobria ed elegante linea neoclassica. La chiesa, trasformata alla fine del '600 ed ancora nell'Ottocento, fu arricchita di pregevoli opere d'arte, tra cui il quadro raffigurante S. Giovanni Battista (1779) di Vincenzo De Mita. Pur sorgendo in posizione elevata, che domina la piazza e l'intero abitato di Atripalda, oggi la chiesa ed il convento, che segnavano così caratteristicamente la piazza, sono preclusi alla vista da un moderno edificio, sorto nel 1964. Sorte anche peggiore ha subito il palazzo Sessa, dalla elegante ed armoniosa struttura settecentesca, che sorgeva su una delle due rampe che conducono a San Pasquale. Demolito per dar luogo ad un nuovo edificio, dell'antico palazzo avanza soltanto, per disposizione della Soprintendenza ai monumenti, il portale marmoreo, ora ricomposto all'interno della Dogana. Proseguendo da piazza Umberto I ed imboccando via Roma si incontra sulla destra la chiesa di Santa Maria del Carmelo, detta popolarmente del Carmine. La chiesa nella sua struttura odierna risale al 1735 e conserva all'interno una buona statua della Vergine (1739) e, sul soffitto, un quadro ligneo raffigurante l'incoronazione della Madonna del Carmelo. Il terremoto, pur provocando il crollo del campanile e danni alla facciata, ha fortunatamente risparmiato l'interno della chiesa. Poco oltre, la chiesa ad una navata di San Nicola da Tolentino ha invece subito danni difficilmente riparabili. Dell'annesso ex convento agostiniano da tempo non avanzano quasi più tracce. Degna di ricordo è infine la piccola chiesa della Maddalena, che dà il nome alla "cupa" adiacente, un tempo chiesa suburbana, eretta nella sua forma attuale nel 1635 sui ruderi delle mura di Abellinum.
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